Autore: Amministratore

ETTORE MUTI – L’UOMO CHE NON CONOSCEVA LA PAURA

Un ricordo nell’ottantesimo anniversario del suo assassinio.

Ettore Muti nasce a Ravenna il 22 maggio 1902 da Cesare Muti, dirigente del personale del comune, e da Celestina Gherardi, casalinga. Ha due sorelle: Linda e Maria.

A 13 anni inizia le Scuole Tecniche e malmena un professore che aveva schiaffeggiato un compagno invalido. L’Italia entra nella Prima Guerra Mondiale e un aereo austriaco, sorvolando Ravenna, lascia cadere alcune bombe, una delle quali centra un tram, uccidendo il tranviere. Avendo assistito al fatto, Ettore, che ha 14 anni, decide di andare a combattere e fugge da casa per raggiungere il fronte ed arruolarsi, ma a Cormons, una settimana dopo, viene intercettato dai carabinieri, che lo rispediscono a casa. L’anno seguente ci riprova e, falsificando il nome e l’età, riesce prima ad arruolarsi e poi ad entrare negli Arditi (20° Reparto d’Assalto del 6° Reggimento di fanteria).

Al fronte si distingue per le imprese temerarie e per la sua audacia. Diventa famoso il 18 giugno 1918, quando il contingente di 800 uomini al quale appartiene viene inviato a creare una testa di ponte sulla sponda orientale del Piave. Il suo reparto riesce nell’impresa, ma quando alla fine arriveranno i rinforzi degli 800 partiti ne rimangono solo 23, tra i quali Muti stesso. Viene proposto per la Medaglia d’Argento al Valor Militare, ma lui rifiuta poiché è sotto falso nome in quanto minorenne. I superiori,  insospettiti da tale rifiuto, svolgono indagini e lo rimandano a casa, senza medaglia, dopo averne appurato la vera identità.

Nel 1919, a Milano, incontra Mussolini e ne rimane affascinato; il 12 settembre si iscrive ai Fasci Italiani di Combattimento e diventa squadrista. Partecipa a numerosissime battaglie contro i rossi in tutta la Romagna e a San Marino; celebre è l’impresa del marzo ’20 quando, saputo che a S. Arcangelo di Romagna era in corso una riunione di tutte le sezioni socialiste della zona, Muti, con tre amici in moto e sidecar, si reca sul posto, entra nel circolo, spegne con un colpo di pistola il lume a carburo, stacca la bandiera rossa dalla parete e, fra lo sbigottimento dei numerosi avversari presenti, dopo aver sparato un altro colpo in aria, balza sulla moto e ritorna a Ravenna col trofeo strappato ai rossi.  

E’ quindi legionario fiumano nell’impresa di D’Annunzio. Il Vate rimane fortemente colpito dalla personalità di Muti, lo soprannomina “Gim dagli occhi verdi” e dirà di lui: «Voi siete l’espressione del valore sovrumano, un impeto senza peso, un’offerta senza misura, un pugno d’incenso sulla brace, l’aroma di un’anima pura». Si distingue particolarmente nell’attività corsara per fornire sussistenza ai Legionari fiumani. Famosi sono l’inseguimento per tutta la Penisola e la cattura nel porto di Catania, assieme ad altri sei camerati, del mercantile “Cogne”, carico di merci preziose per il Sudamerica, che viene dirottato su Fiume.

Nel 1920 muore improvvisamente suo padre, Cesare Muti.

Partecipa alla Marcia su Roma e, al comando delle Squadre d’azione, il 29 ottobre 1922 occupa la Prefettura di Ravenna e destituisce il prefetto. L’anno dopo entra a far parte della neocostituita Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale; nel 1924 raggiunge il grado di Console e comanda la LXXXI Legione “Alberico da Barbiano”.

Il 3 dicembre 1925, nonostante l’opposizione del padre di lei, sposa Fernanda Mazzotti, figlia del presidente della Cassa di Risparmio di Ravenna, dalla quale ha una figlia: Diana, nata nel 1929. Il matrimonio avrà una durata breve e burrascosa.

Appassionato della velocità, ama correre sia in moto che in auto, divenendo protagonista di numerosi incidenti stradali: a Bagnacavallo, a Bologna, ai Fiumi Uniti, a Rimini ed.uno, particolarmente spettacolare, a Savio di Ravenna.

Il 13 settembre 1927, anniversario della marcia di Ronchi, è in piazza Vittorio Emanuele a Ravenna e, mentre sta parlando con un amico per organizzare una cerimonia a Fiume, arriva l’anarchico Leopoldo Massaroli di Mezzano, che gli spara due colpi, colpendolo al braccio destro e al fegato. Interviene il Federale di Ravenna Renzo Morigi – futuro campione olimpico di tiro con la pistola a Los Angeles e poi Vice Segretario del Partito Nazionale Fascista – il quale, sparando da una distanza di circa 100 metri, con un colpo solo uccide l’attentatore. Muti è trasportato, gravemente ferito, all’ospedale, dove rimane degente per tre mesi: operato al fegato con poche speranze, riuscirà a sopravvivere e a ristabilirsi; gli resterà una cicatrice sotto lo stomaco di oltre 20 centimetri.

Nel 1929 conosce a Roma Araceli Ansaldo Cabrera, allora diciannovenne, nata a Monzon (Spagna) il 17 marzo 1910, figlia di Francesco Ansaldo Conte di Lerin, Grande di Spagna, e di Aurora Cabrera, nonché cugina del giornalista Giovanni Ansaldo, suo amico; da lei – che gli giura amore eterno e manterrà il giuramento per tutta la sua lunga vita – avrà un figlio, nato a Madrid  l’11 dicembre 1931, al quale viene imposto il nome di Carlo Ettore. Poco più tardi finisce di fatto il matrimonio con Fernanda Mazzotti, che lascia Roma per tornare a Ravenna con la figlia Diana.

L’anno dopo è al comando della CXX Legione di Roma, poi a quello della XI Legione a Casale Monferrato. Il 3 maggio 1932 passa a comandare la Terza Legione Portuaria a Trieste, dove diventa amico del Duca d’Aosta, il futuro eroe dell’Amba Alagi, che lo convince ad entrare in Aeronautica.

Sul campo d’aviazione di Gorizia ottiene prima il brevetto di pilota civile e poi quello di pilota militare.

Il 24 ottobre 1935 parte per l’Etiopia col grado di Tenente d’aviazione. Opera  in Eritrea, con la 15a squadriglia da bombardamento di Macallè, volando sulla Dancalia in appoggio alla colonna Litta che marcia verso il Sultanato dell’Aussa. Bombarda Dessiè, partecipa alle battaglie del Tembien, dell’Endertà e del lago Ascianghi contro la Guardia imperiale etiopica, compie audaci ricognizioni su Addis Abeba e spesso ama atterrare, in segno di sfida, oltre le linee nemiche.

In Africa frequenta Galeazzo Ciano e la sua cerchia, tra cui Mario Badoglio (il figlio del Maresciallo) e il Duca d’Aosta. Compie spettacolari voli sull’Amba Aradam, partecipa alla battaglia di Mai Ceu. Gli ascari, ammirati, lo chiamano “Muti Kristos rioplano” e i compagni d’arme “il matto volante”. Entra a far parte della famosa 83a squadriglia da bombardamento “La Disperata”, di cui, oltre a Ciano, fanno parte anche Roberto Farinacci e Alessandro Pavolini.

Il 30 aprile 1936, quando le avanguardie italiane sono ancora a 100 chilometri di distanza, al torrente Gadula, ed il Negus è ancora nella sua capitale, Ettore Muti, da solo, tocca il suolo ad Addis Abeba sfidando i mitraglieri scioani. Farà ben 45 atterraggi in territorio nemico. Alla fine del conflitto etiopico ha raggiunto il grado di Capitano e il suo medagliere si è arricchito di due Medaglie d’Argento e una di Bronzo.

Subito dopo l’Africa parte per la Spagna. Si arruola volontario nel “Tercio” (la Legione Straniera fondata da Millan Astray) e partecipa alle operazioni belliche dell’Aviazione Legionaria col nome di “Capitano Gim Valeri”. Vola sui cieli della Catalogna, delle Sierre e del Mediterraneo: gli spagnoli lo chiameranno “Cid aereo”, nonché “Il Gaucho” e “Il Corsaro”. Il 27 agosto 1936, al largo di Malaga, centra con 4 bombe, da 300 metri d’altezza,  l’incrociatore repubblicano “Cervantes”, danneggiandolo gravemente (sarà poi affondato il 31 maggio 1937 mentre era ai lavori nel bacino di Cartagena, dalla squadriglia del capitano Fortunato Federigi).

Attaccato in dialetto romagnolo da Radio Barcellona («venite qua, se avete coraggio») entra per primo nella grande città catalana. Bombarda 10 volte Oviedo, liberando la città dall’assedio, combatte (con un bombardiere) nel cielo di Alcañiz contro 18 caccia avversari abbattendone 2 e mettendone in fuga gli altri, distrugge gli aeroporti di Guajon e Alcalà di Henares, compie con spavalderia quattrocento azioni di guerra, battendosi in duello contro i Rata e i Curtiss. Vola con la squadriglia della “Cucaracha” e con quella dell’ “Asso di Bastoni”, riceve dal Re l’Ordine Coloniale della Stella d’Italia.

Il 15 marzo 1937 è promosso Maggiore per merito di guerra ed è anche nominato Console Generale della Milizia. Vola ripetutamente su Madrid. I marocchini del “Tercio” lo adorano. Un giorno il generale Berti vuol organizzare una festa da ballo, ma gli manca il grammofono: Muti va a prenderlo oltre le linee, nel bar di un paese occupato dai rossi. Vola sulle Baleari. Memorabile l’avventura di Talavera, quando una bomba, sganciatasi durante il bombardamento, era rimasta impigliata nel cestello del suo aereo e lui non poteva atterrare. Ci riuscirà, alla fine, con grande perizia e ardimento. Un giorno rientrerà all’aeroporto, dopo uno scontro con 15 caccia Rata, con l’apparecchio sforacchiato da oltre 100 colpi. In un anno compie complessivamente 400 voli di guerra e 160 azioni belliche.

Per problemi alla vista causati dai vapori della benzina finisce la guerra al comando di un reparto corazzato del Tercio – col quale entra tra i primi a Madrid – e con una Medaglia d’Oro al Valor Militare e 5 nuove Medaglie d’Argento, nonché una Medaglia d’Oro spagnola, concessagli dal generalissimo Franco (Cavalierato Imperiale dell’Ordine del Giogo e delle Frecce).

Nell’aprile del 1939 è in Albania, questa volta come carrista, e, con Umberto Simini e Giovanni Raina, arriva per primo a Durazzo, come per primo arriva successivamente a Tirana, dove occupa l’aeroporto ed ottiene un’altra Medaglia d’Argento. Su un mezzo corazzato, poi, conquista la Reggia di Re Zogu, fra lo sbalordimento delle Guardie Reali incapaci di reazione, e s’impadronisce della bandiera del Re fuggiasco, che donerà più tardi alla Federazione di Ravenna.

Il 28 ottobre di quello stesso anno Mussolini lo nomina Segretario del Partito Nazionale Fascista in sostituzione di Achille Starace – che teneva l’incarico dal 2 dicembre 1931 – e il 5 dicembre diventa membro del Gran Consiglio del Fascismo.

Il nuovo incarico, però, a lui – uomo d’azione – non piace. Con l’entrata  dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, chiede ed ottiene di essere assegnato ad un reparto combattente e il 6 luglio 1940 raggiunge l’aeroporto di Gadurrà, a Rodi, dove assume il comando del 41° Gruppo del 12° Stormo da Bombardamento dell’Egeo. Il 10 luglio il Gruppo bombarda i depositi di petrolio di Haifa e ripete l’azione il 10 agosto, incendiando 50 depositi e l’oleodotto. Il 18 ottobre 1940, con quattro S.M.81,  partecipa al bombardamento dei pozzi petroliferi di Al Manamah, nelle isole del Bahrein (Golfo Persico), effettuando un volo di 4.500 chilometri da Rodi e stabilendo un primato mondiale tuttora imbattuto. Ben 132 bombe distruggono le più importanti installazioni petrolifere del Golfo Persico.

Alla fine dello stesso mese si dimette dalla carica di Segretario del Partito Nazionale Fascista, ponendo fine all’amicizia con Galeazzo Ciano che l’aveva proposto a tale carica illudendosi di poterlo facilmente manovrare a suo piacimento.

Combatte in Francia e prende parte alla Battaglia d’Inghilterra. Partecipa alla Campagna di Grecia, bombardando le linee nemiche. Nel marzo 1942 è promosso Tenente Colonnello e nel Mar Egeo, ai comandi di un aerosilurante S.M.79, affonda un incrociatore inglese: sceso a pelo d’acqua sotto il fuoco della contraerea, gli lancia un siluro che colpisce la fiancata della nave, spezzandola in due.

Trasferitosi con l’intero Stormo in Sicilia, prende parte alla Battaglia aeronavale di Pantelleria, ma poi, nuovamente a causa dell’indebolimento della vista (particolarmente dall’occhio sinistro) dovuta ad una prolungata esposizione ai vapori del carburante aereo, nell’estate del 1943 viene dichiarato inidoneo al volo: lascia lo Stormo e sceglie di essere assegnato al Servizio Informazioni dell’Aeronautica.

Complessivamente, nel corso della Seconda Guerra Mondiale venne insignito di quattro Medaglie d’Argento al valor militare, oltre alla Croce di Ferro tedesca di I e II classe.

In veste di agente del SIA, nell’estate del ’43 si reca in Spagna per cercare di carpire i segreti di un congegno elettronico che si trovava a bordo di un aereo americano atterrato sul suolo iberico e là internato. In Spagna contatta le autorità diplomatiche italiane per avviare la procedura di regolarizzazione del suo rapporto con Araceli e il riconoscimento del figlio Carlo Ettore, ma gli avvenimenti successivi gli impediranno di portarla a termine. Venuto a conoscenza della convocazione per il 25 luglio del Gran Consiglio del Fascismo, cerca di rientrare in Italia per prendervi parte, ma non ci riesce, perché bloccato al confine italo-francese dagli eventi bellici in corso e può tornare a Roma solo dopo il colpo di Stato.

In quei giorni Badoglio, il traditore per antonomasia, che era anche un grande vigliacco, aveva un folle terrore fisico sia di Muti che dei tedeschi: ai suoi confidenti andava continuamente ripetendo che prima o poi gli avrebbero tagliato la gola. Non potendosi liberare dei secondi, progettò di liberarsi almeno del primo, tanto più che un altro infame, il generale Giacomo Carboni, gli andava continuamente sussurrando che Muti aveva intenzione di organizzare forze fasciste per rovesciare il governo golpista da lui presieduto e liberare Mussolini in accordo con i tedeschi (cosa probabile, ma di cui non è mai emersa prova concreta). Pertanto, dopo un viscido tentativo di ingraziarselo effettuato il 18 agosto 1943 e miseramente fallito, ne decise l’assassinio.

Nella notte tra il 23 e il 24 agosto Ettore Muti è nella villetta che detiene in affitto a Fregene ed è in compagnia dell’attrice-ballerina cecoslovacca Edith Ficherova, in arte Dana Harlova; nella casa sono presenti anche l’attendente-autista Giovanni Marracco, la governante Concettina Verità e l’amico Roberto Rivalta, che poco tempo dopo verrà ucciso in un vicolo a Ravenna da ignoti sicari e sul cui omicidio nessuno mai indagherà.

Su ciò che avvenne quella notte furono fatte circolare varie versioni, soprattutto per mascherare l’omicidio, per eseguire il quale era stata programmata una accurata, quanto ingenua, farsa di Stato; ma alla fine la verità emerse in tutti i particolari, soprattutto grazie alle dichiarazioni di un testimone oculare: Antonio Contiero, allora carabiniere in servizio presso la Stazione di Maccarese; dichiarazioni di cui segue un estratto:

“Ero carabiniere in servizio alla Stazione di Maccarese (Roma) dal 10 aprile 1943 al 6 settembre dello stesso anno.

Alle ore 0,30 del 24 agosto si presentò alla caserma dei carabinieri di Maccarese un signore in borghese che si qualificò per il tenente Taddei dei carabinieri. Egli era accompagnato da un maresciallo della squadra speciale presidiaria di Roma, anche egli in borghese, e da un altro uomo che indossava una tuta color kaki. I tre erano armati di fucile mitragliatore.

Subito dopo venni incaricato, unitamente al carabiniere Frau Salvatore della mia stessa Stazione, di accompagnare il tenente Taddei al posto fisso di Fregene, che il Taddei non sapeva dove fosse. In località Cancello attendevano una quindicina di carabinieri che si unirono a noi. Al posto fisso il tenente Taddei disse al comandante di esso, brigadiere Barolat, che doveva arrestare Muti: lo accompagnasse quindi alla sua villa e prendesse con sé due uomini.

Giunti alla villa di Muti, il tenente ordinò di circondarla e di aprire il fuoco senza preavviso se si fosse aperta qualche finestra e qualcuno avesse tentato di scavalcarla per scappare. Circondata la villa, si avvicinarono alla porta d’ingresso il tenente, il brigadiere Barolat, il maresciallo della squadra speciale e l’individuo in tuta.

Dopo aver bussato diverse volte fu aperta la porta da un giovanotto il quale si qualificò per l’autista.  Egli rispondeva che l’Eccellenza era a letto; io, che ero appena fuori della porta dopo il tenente e il brigadiere, udii perfettamente una voce dall’interno che domandava chi era che chiedeva di lui. Il brigadiere Barolat, allora facendosi un po’ avanti, rispose: ‘Sono io, Eccellenza, il brigadiere della Stazione’. Eccellenza Muti, allora, venne fuori in pigiama e notando la presenza del tenente Taddei, in abito civile col mitra, seguito da altri due pure un abito civile e col mitra, domandò chi fossero. Il tenente si presentò esibendo contemporaneamente la tessera di riconoscimento e quindi gli comunicò che era costretto a portarlo con lui.

Eccellenza Muti allora, dopo aver fatto un gesto d’impazienza, si ritirò nella sua stanza per vestirsi, ma il tenente Taddei lo seguì in compagnia del brigadiere Barolat, mentre il maresciallo della squadra speciale, il famoso individuo in tuta ed alcuni carabinieri, tra i quali anch’io, rimanemmo nella stanza d’entrata.

In camera, mentre Muti si vestiva, potei udire il tenente che lo pregava di indossare l’abito civile, perché, diceva, dovendo tradurlo in stato d’arresto, non gli sembrava opportuno che indossasse la divisa. Siccome Muti insistette e volle indossare la divisa, il tenente soggiunse: ‘Sarebbe meglio l’abito civile, perché tanto le vostre medaglie non contano’.

Udii perfettamente Ettore Muti dire: ‘Tenente, ricordatevi che sono un Colonnello’.

Dopo qualche minuto uscirono dalla stanza e andammo tutti fuori. Il tenente quindi dette l’ordine di partenza e ricordo perfettamente l’ordine di marcia: avanti Ettore Muti, con al suo fianco destro il maresciallo della squadra speciale, a sinistra il carabiniere Frau Salvatore della Stazione di Maccarese, e alle spalle il famoso individuo in tuta kaki. Più indietro, alla distanza di dieci o quindici passi, seguiva il gruppo dei carabinieri, dei quali facevo parte anch’io, con al centro il tenente Taddei e il brigadiere Barolat.

Dopo circa cinque minuti di cammino il tenente Taddei emise un fischio, al quale rispose un altro fischio che partiva dal gruppo dove era l’Eccellenza. Dopo qualche istante sentimmo improvvisamente una raffica di pochi colpi di mitra, seguita immediatamente da altre scariche. Alla prima raffica, siccome eravamo stati avvertiti dal tenente Taddei che per la strada saremmo stati attaccati, ci siamo tutti buttati a terra.

Non vidi le fiamme della prima scarica perché ci colse all’improvviso (e dopo mi resi conto del motivo per cui non le vedemmo), ma vidi perfettamente le scariche successive, le cui fiamme, partendo dal gruppo di testa, erano rivolte verso destra e in aria. Mentre eravamo tutti a terra il tenente lanciò due o tre bombe, almeno ritengo sia stato il tenente, in direzione del gruppo di testa, ma un poco sulla sinistra. Per un momento fui convinto che fossimo stati attaccati, e feci tra me delle condiderazioni sul fatto che il gruppo di testa sparava verso destra mentre l’attacco, a mio parere, proveniva da sinistra. Dopo qualche istante, però, compresi perfettamente quello che era successo per il fatto che il tenente, cessata la sparatoria, domandò ad alta voce: ‘Che cosa c’è?’; al che il maresciallo della squadra speciale rispose con le testuali parole: ‘Finestre chiuse, è andato a casa’.

 Dopo questa risposta, il tenente si alzò e dette ordine di adunata.

Alla adunata erano presenti il maresciallo della squadra speciale e il famoso individuo in tuta kaki. Senza che nessuno avesse profferito parola ci avviammo tutti nella stessa direzione di marcia, e dopo una ventina di passi trovammo a terra, disteso bocconi, Ettore Muti. A questo punto il maresciallo gridò perché lo sentissero tutti: ‘Siamo stati attaccati dalla destra ed è rimasto colpito l’Eccellenza Muti’.

Segui un breve dialogo tra il tenente ed il maresciallo per stabilire da quale parte fossero stati attaccati. In quel momento  il famoso individuo in tuta kaki, che aveva la sigaretta accesa, fece l’atto di dare un calcio alla salma al cui indirizzo pronunciò parole oltraggiose e, quindi, scavalcò il cadavere fermandosi a 4 o 5 passi di distanza, continuando a fumare la sua sigaretta. Il tenente Taddei non fiatò a questo gesto”.

Muti fu ucciso da un proiettile alla nuca sparato alle sue spalle, come dimostrato dal berretto che indossava e dall’autopsia successivamente disposta, il cui referto recita: “Decesso per colpo d’arma da fuoco alla nuca, nessuna altra ferita”.

Schematizzando in base ai loro ruoli, gli assassini di Ettore Muti furono dunque:

  • Pietro Badoglio, capo del governo golpista, mandante;
  • Giacomo Carboni, Generale di Corpo d’Armata e capo del SIM, istigatore;
  • Angelo Cerica, Generale comandante dell’Arma dei Carabinieri, complice;
  • Carmine Senise, capo della polizia, che ordinò di eseguire la farsa;
  • Carmelo Marzano, capo dell’Autoparco del Ministero degli Interni, che fornì gli automezzi per l’operazione;
  • Ezio Taddei, Tenente dei carabinieri, sicario;
  • Alarico Ricci, maresciallo della squadra speciale, sicario;
  • Salvatore Abate, l’uomo in tuta kaki, agente di polizia, sicario e materiale autore dell’omicidio.

Poco tempo dopo Badoglio promosse il Taddei al grado di Capitano per “meriti speciali” e l’Abate al grado di vicebrigadiere.

La salma di Muti fu raccolta verso l’alba e infilata in un sacco; in fretta venne trasportata a Roma, all’ospedale militare del Celio; infine fu tumulata in un loculo al cimitero del Verano a Roma. Fra le persone accorse, c’ era la moglie dell’Eroe la quale, a ricordo del marito, chiese solamente il berretto che egli indossava al momento della morte e sul quale sono ben visibili il foro d’entrata sul retro e quello d’uscita sul davanti del colpo sparatogli alle spalle da Salvatore Abate.

Gli episodi bellici che lo videro protagonista resero Ettore Muti meritevole di una Medaglia d’Oro al V.M. a vivente, dieci Medaglie d’Argento al V.M. (di cui tre sul campo), cinque Medaglie di Bronzo al V.M., l’Ordine Militare di Savoia, cinque Croci al Merito, due “Medalla Militar Española”, due Croci di Ferro germaniche (1° e 2° classe) e ben 16 riconoscimenti onorifici tra italiani e stranieri. Si tratta di un medagliere che fa di Muti, a tutt’oggi, il più decorato soldato d’Italia. Detiene inoltre, tuttora, il primato mondiale di ore di volo in guerra.

Il medagliere di Ettore Muti

Costituitasi la Repubblica Sociale Italiana, il 24 settembre 1943 a Roma, nella chiesa di San Marcello, presenti il Segretario del Partito Fascista Repubblicano Alessandro Pavolini scortato da trenta squadristi, gli furono rese le onoranze solenni nel trigesimo della morte e nel gennaio del 1944 il Duce dispose che le spoglie dell’Eroe fossero traslate alla Basilica di San Francesco di Ravenna, sua città natale. Ciò avvenne il 19 febbraio 1944 con una solenne cerimonia, alla quale presero parte, oltre ai parenti, il Segretario del Partito Fascista Repubblicano Alessandro Pavolini, il Delegato Regionale del Partito Fascista Repubblicano Franz Pagliani, il Capo Provincia Franco Bogazzi, il Colonnello della Guardia Nazionale Repubblicana Filiberto Nannini, il Comandante della Legione Autonoma Mobile “Ettore Muti” Franco Colombo e le autorità militari germaniche con relativo picchetto, che rese gli onori.

Nel corso della cerimonia Alessandro Pavolini pronunciò una mirabile orazione funebre, di cui segue il passo più rilevante:

“Sei mesi sono passati dall’agosto infame. E non è mistero che allora i più fedeli, spersi nella marea montante della vergogna regia, anelanti alla liberazione del Duce come all’unico principio possibile della riscossa, avevano in Muti il loro punto di riferimento.

Ma ciò potrebbe spiegare un arresto, una prigione. Non l’assassinio, non lo sparo alla nuca per ordine governativo. Perché, dunque?

Ormai la storia successiva risponde ampiamente all’interrogativo.

Perché non si poteva perfezionare la diffamazione del Fascismo, senza sopprimere fisicamente quelle che erano le incarnazioni di un Fascismo altissimo e valoroso.

Perché non si potevano insozzare con la calunnia gli squadristi e le gerarchie, che avevano dato migliaia di morti alla guerra, senza togliere dal mondo dei vivi colui che era stato squadrista e gerarca e che portava innumerevoli sull’ampio torace i segni della morte sfidata in combattimento.

Perché non si poteva stringere la mostruosa  alleanza col comunismo, senza sigillarla col sangue di chi era stato alfiere della lotta antibolscevica in Italia e in Europa, dall’Emilia alla Catalogna.

Perché non si osava perpetrare il tradimento all’alleato, il tradimento ai combattenti e ai Caduti, senza prima levar di mezzo un esponente così tipico, generoso e popolare della nostra guerra.

Per questo, dopo aver inseguita nei rischi più temerari la morte del soldato prode, egli ebbe invece la corona del martirio”.

All’Eroe vennero intitolate:

  • la Squadriglia da Bombardamento “Ettore Muti”, reparto dell’Aeronautica Nazionale Repubblicana, che effettuò solo una limitata attività addestrativa;
  • la XXIX Brigata Nera “Ettore Muti” di Ravenna;
  • la Legione Autonoma Mobile “Ettore Muti” di Milano.

Cronologia finale:

1943 – Araceli Ansaldo apprende dal giornale, a Madrid, la notizia della morte di Muti mentre è al quinto mese di gravidanza del secondo figlio di Ettore: Jolanda Aurora, che nascerà il 25 dicembre.

1946 – Nel clima di odio e di epurazione fascista, a Fernanda Mazzotti viene revocata la pensione privilegiata, perché attribuitale dal “governo di Salò” e il 19 aprile la salma di Ettore Muti, collocata nella Basilica di San Francesco di Ravenna, viene fatta trasferire nel cimitero cittadino,  presso una tomba di famiglia. È qui che fino all’estate 2016 si sono svolte le cerimonie commemorative dell’ “Eroe della Rivoluzione Nazionale”, organizzate dai Reparti di Ravenna e Bologna dell’Associazione Nazionale Arditi d’Italia.

1950 – Pietro Badoglio viene denunciato quale mandante dell’omicidio di Ettore Muti dal direttore del settimanale politico satirico “Asso di Bastoni”, Pietro Caporilli; Celestina Muti, madre dell’Eroe, vedendo casualmente in una edicola di Milano la copia del predetto giornale che annunciava la denuncia contro Badoglio, scopre che il figlio non è morto nel corso di un combattimento aereo sul Mediterraneo, come le era stato detto.

1951 – Dopo un anno di udienze al processo penale per l’assassinio di Ettore Muti viene emessa sentenza di archiviazione per sopraggiunte amnistie ai reati commessi.

1953 – In aprile Carlo Ettore viene in Italia, ospite della nonna Celestina Muti e delle zie paterne Linda e Maria.

1959 – Il 23 giugno, all’età di 28 anni, Carlo Ettore perde la vita in un tragico incidente aereo avvenuto in Perù. Viene sepolto a Madrid. Araceli Ansaldo è invitata a Sanremo dalle sorelle di Ettore, Maria – coniugata con Valdemaro Venturoli – e Linda – coniugata con Mario Cossovic.

1963 – Il 19 ottobre Jolanda, figlia di Araceli e di Ettore, sposa a Madrid Guglielmo Gauthier.

1964 – Maria, sorella di Ettore, è madrina al battesimo del primo figlio di Jolanda, Kevin Carlos, nato a Madrid il 31 luglio, per confermare il legame di sangue con il nonno Ettore.

1967 – L’8 febbraio Celestina Muti, madre di Ettore, muore a Padova all’età di 88 anni.

1994 – Il 5 luglio Araceli Ansaldo e la figlia Jolanda giungono a Roma con tutto il bagaglio dei ricordi che compongono lo splendido volume “Gim dagli occhi verdi”, di cui sono autrici.

1995 – Il 24 agosto Araceli e Jolanda donano al Museo dell’Aeronautica “Gianni Caproni” di Trento numeroso materiale a ricordo perenne dell’Eroe.

2005 – Il 24 Agosto, Araceli (95 anni compiuti) e Jolanda presenziano a Ravenna alla solenne commemorazione della morte del rispettivo marito e padre.

2017 – In giugno accade un fatto sconcertante. Nel cimitero di Ravenna la piccola lapide marmorea con la foto e il nome di Ettore Muti, che era presente sul sepolcro, scompare. Inizialmente si pensa ad un’azione vandalica, ma poi viene diffusa, da parte dei legali di Diana Muti (deceduta l’anno successivo),  la versione ufficiale della famiglia che vuole la salma trasferita in altro imprecisato luogo per impedire ogni tipo di manifestazione in onore dell’ex-Segretario del Partito Nazionale Fascista. A tutt’oggi si ignora ove sia collocata la salma e, nonostante gli ostacoli e i veti posti dall’amministrazione comunale, le annuali cerimonie organizzate in suo onore dall’Associazione Nazionale Arditi d’Italia si sono svolte, fino al 2022, fuori del cimitero di Ravenna, presso il Monumento al Marinaio, ove è stata posizionata per l’occasione una lapide marmorea in ricordo di Ettore Muti.

2023 – In seguito alle continue denunce da parte della feccia rossa e alle relative vicende giudiziarie i cui costi non è più in grado di sostenere, l’Associazione Nazionale Arditi d’Italia rinuncia ad organizzare la suddetta cerimonia annuale in forma e luogo pubblici e decide di effettuarla in forma e luogo privati. Ciò non modifica in alcun modo la Storia e la natura dei personaggi: Ettore Muti è stato e rimarrà sempre il più grande degli Eroi d’Italia, la feccia rossa è stata e rimarrà sempre soltanto immondizia.

Giuliano Scarpellini

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CARMELO BORG PISANI E L’IRREDENTISMO ITALIANO

Il 17 marzo 1861 si è costituito il moderno Stato italiano, ma la completa unità d’Italia non è mai stata realizzata; ci si è avvicinati, ma solo avvicinati, per un breve periodo nel corso della Seconda Guerra Mondiale, al termine della quale, oltre a quelli che mancavano inizialmente, andarono perduti altri territori.

Oggi, se si considera la questione sotto gli aspetti storico, geografico, culturale e linguistico, mancano all’appello vasti territori e non è certamente l’Unione (Bancaria) Europea che può sopperire alla loro mancanza:

– ad Ovest quelli occupati dalla Francia: la Corsica, il nizzardo, Briga, Tenda e la Savoia;

– a Nord: il Canton Ticino e parte di quello dei Grigioni, appartenenti alla Svizzera;

– ad Est: buona parte del Friuli, occupato dalla Slovenia, l’Istria, divisa tra Slovenia e Croazia, la Dalmazia e il suo arcipelago, occupati dalla Croazia; le isole ionie, occupate dalla Grecia;

– a Sud: Malta, già colonia inglese ed ora formalmente indipendente.

Il problema creato dal disconoscimento delle nazionalità da parte degli Stati cannibali originò, nel XIX e nel XX secolo il fenomeno (non riguardante solo l’Italia, bensì molte altre Nazioni europee) dell'”irredentismo”, cioè quel movimento politico-culturale, a carattere nazionalistico, tendente a riunire alla madrepatria quei territori e quelle popolazioni che si ritengono ad essa legati per razza, lingua, storia e civiltà ma che sono politicamente incorporati in uno stato straniero.

Limitandoci all’Italia, un antesignano dell’irredentismo fu Giovanni Pianori, di cui il C.te Paolo Gulminelli ha tracciato una sintetica, ma efficace scheda: “Giovanni Pianori era un umile e modesto calzolaio, fervente Repubblicano e Mazziniano, partecipò ai combattimenti per la Repubblicana Romana, e su ordine di Giuseppe Mazzini [nella primavera del 1855, n.d.r.] si recò a Parigi per attentare alla vita di Napoleone III considerato traditore perchè ‘sterzò’ la sua azione inizialmente riformatrice per poi schiacciare la libertà italiana. Giovanni Pianori mancò però l’imperatore, ma dopo un processo farsa in cui gli furono imputati reati che la Santa Sede / Chiesa trasmise ai francesi come suoi, ma che furono invece e realmente attribuiti al fratello Senesio, non poté neanche difendersi, non capendo i capi di imputazione lettigli in francese e non potendosi discolpare nella lingua dei suoi accusatori. Egli fu ghigliottinato il 14 maggio del 1855”.

Altri noti irredentisti furono poi il triestino Guglielmo Oberdan, impiccato nel 1882 per aver organizzato un attentato contro l’imperatore d’Austria, e, nel corso della Prima Guerra Mondiale, i triestini Guido Brunner, Guido Corsi, Spiro Xidias, Aurelio e Fabio Nordio, Ugo Polonio, Scipio Slataper, Carlo Stuparich, gli istriani Fabio Filzi, Pio Riego Gambini e Nazario Sauro e il dalmata Francesco Rismondo, i quali si arruolarono e combatterono nelle Forze Armate italiane ed ai quali toccarono sorti differenti. 

Per la storiografia ufficiale rimaneggiata (una volta si diceva ad usum delphini, oggi a buon diritto si potrebbe dire ad usum cretini) dai “democratici” governi italiani del dopoguerra, però, ci sono irredentisti ed irredentisti, mica sono tutti uguali: quelli che appartenevano a territori occupati da Stati “antidemocratici” come l’Impero Austro-Ungarico, se proprio non se ne può fare a meno, si possono ricordare, sia pure con molta cautela e senza calcare sulla loro ispirazione nazionalista, quelli appartenenti a territori occupati da Stati “democratici” come la Francia e l’Inghilterra, invece, vanno senz’altro dimenticati, al pari dei profughi giuliani e dalmati.

Del secondo gruppo, oltre al succitato Giovanni Pianori, fanno parte gli irredentisti còrsi, che, solo per limitarsi al 1946, furono da un tribunale francese  condannati a morte, o a durissime pene detentive o alla deportazione nella Guayana francese e i cui beni furono confiscati (per approfondire leggere l’articolo di Giulio Vignoli: https://irredentismo.forumfree.it/?t=44912351) e, naturalmente, gli irridentisti maltesi, tra cui, su tutti,  Carmelo Borg Pisani, il quale, oltre ad aver tentato di pestare i calli al “democratico” Impero britannico, era per giunta indiscutibilmente – horribile dictu – un fervente fascista e nessuno storico “allineato” (o ammaestrato) può inventarsi qualcosa per negarlo o per metterlo in dubbio o per nasconderlo.                                                                     

Carmelo Borg Pisani nacque a Senglea (Malta) il 10 agosto 1914 in una famiglia legata al Partito Nazionalista filo-italiano, i cui sentimenti furono trasmessi al ragazzo. Compì i primi studi nelle scuole italiane di Malta, dove, essendo versato per l’arte e in particolare per la pittura, frequentò l’Istituto Umberto I di La Valletta, centro culturale di prim’ordine ed autentica bandiera d’italianità; poi, si trasferì a Roma, dove, con una borsa di studio concessagli dal Ministero degli Esteri, si iscrisse all’Accademia di Belle Arti e dove entrò in contatto con altri irredentisti maltesi e aderì al PNF. Allo scoppio della guerra chiese ed ottenne l’arruolamento nelle Camicie Nere e partecipò all’occupazione di Cefalonia con la Compagnia Speciale del Gruppo CC.NN. da sbarco della 50a Legione. Rimpatriato nel settembre 1941, frequentò la Scuola Allievi Ufficiali della Milmart a Messina e, nominato Sottocapo Manipolo (Sottotenente) nell’aprile 1942, fu assegnato a una batteria costiera in Liguria, venendo contattato dai servizi segreti italiani per una rischiosissima missione informativa, da effettuarsi a Malta in preparazione dell’operazione “C3” (invasione di Malta).                                                 

In vista di tale operazione il SIE (Servizio Informazioni dell’Esercito) aveva costituito a Soriano nel Cimino, nei pressi di Viterbo, un centro “G” (dove G stava per “guide”) ove si addestravano alcune decine di maltesi destinati appunto a guidare le prime ondate di sbarco e di aviosbarco sull’isola. A sua volta il SIS della Marina, conscio del fatto che sull’isola non si era per tempo provveduto a predisporre una adeguata rete informativa, stava organizzando la missione di un proprio operatore che, munito di apparato ricetrasmittente, avrebbe dovuto informare Roma della situazione militare e generale dell’isola, soprattutto a ridosso dell’attacco.

Carmelo Borg Pisani accettò, entusiasticamente: “Al momento della guerra avrei potuto tornare a Malta se lo avessi voluto, ma rimasi perché sentii la voce della Patria e credevo mio dovere rimanere là, dove la Patria vera raccoglieva tutti i suoi figli, per liberare anche i miei fratelli”. Sono parole di una lettera che egli scrisse ad un amico poche ore prima di partire volontariamente per Malta.

La notte sul 18 maggio del 1942 due mezzi d’assalto della Decima, gli MTSM 214 (con a bordo Caio Borghi, il nome di copertura assunto da Carmelo) e 218 (con a bordo il sottocapo palombaro Giuseppe Guglielmo), scortati dalla torpediniera “Abba” e da due Mas, si avvicinarono alle coste maltesi. Il compito di Guglielmo era di controllare una zona orientale dell’isola, nei pressi di Marsa Scala, per verificarvi le postazioni difensive nella previsione di uno sbarco nell’area delle unità italiane; purtroppo Guglielmo, sceso a terra per meglio riconoscere la zona ed allontanatosi eccessivamente dal punto di sbarco, una volta tornato in acqua non riuscì più a trovare il mezzo avvicinatore il quale, pur avendolo atteso ben oltre il tempo limite stabilito, dovette far ritorno alla base senza di lui. Il sottocapo Guglielmo, tornato ancora una volta a terra, venne quindi individuato da elementi locali e consegnato alla polizia per poi essere avviato alla prigionia di guerra.

A sua volta il mezzo su cui era imbarcato Caio Borghi giunse, verso l’1,30 di notte, nella zona di Ras id-Dawwara, sulla costa occidentale dell’isola, caratterizzata da alte pareti rocciose. Messo a mare il battellino con a bordo tutti i materiali necessari alla missione (radio ricetrasmittente, armi, munizioni e viveri), Carmelo si era avvicinato alla costa ed agli uomini dell’MTSM, rimasto a poche centinaia di metri al largo, parve che la presa di terra fosse avvenuta senza inconvenienti, tanto più che l’operatore aveva inviato il segnale concordato per dare certezza dell’avvenuto sbarco. A quel punto il mezzo avvicinatore  rientrò regolarmente alla base assieme alle altre unità; ora ai responsabili dell’operazione non restava che attendere la prima trasmissione radio di Caio Borghi, ma questo segnale non arrivò mai.

Sulle vicende che seguirono da qui in avanti le versioni sono discordanti.

Una afferma che, a causa del mare agitato, il battellino si rovesciò, disperdendo in mare l’equipaggiamento e Borg Pisani rimase aggrappato ad uno scoglio fino a che non fu individuato da una motovedetta inglese che lo trasse a bordo; un’altra afferma che riuscì a sbarcare e a rifugiarsi in una grotta, che però fu invasa dal mare che trascinò via l’equipaggiamento e, avvistato da una motovedetta inglese in perlustrazione, fu soccorso via terra, in quanto l’imbarcazione non era in grado di avvicinarsi agli scogli.

Fatto sta, che, essendo in precarie condizioni fisiche, fu ricoverato all’ospedale militare di Mtarfa. Qui – si narra – lo riconobbe il capitano medico inglese Tom Warrington, suo quasi coetaneo e amico d’infanzia, che non esitò a denunciarlo.

I servizi segreti inglesi, nell’intento di carpirgli informazioni, dapprima lo posero agli arresti domiciliari presso una casa privata; poi, non riuscendo a ottenere la sua collaborazione, lo fecero trasferire nel carcere di Corradino, sino a che, il 19 novembre 1942, la Corte Criminale, negandogli il riconoscimento dello status di prigioniero di guerra, lo riteneva colpevole di aver cospirato per unire Malta all’Italia, aver preso parte ad operazioni di guerra per conto di uno Stato nemico e, infine, essere sbarcato sull’isola per svolgervi azioni di spionaggio, condannandolo a morte per impiccagione. A nulla valse il suo rifiuto del passaporto britannico, comunicato, allo scoppio della guerra, all’ambasciata degli Stati Uniti d’America, che curava gli interessi britannici in Italia.

Il 28 novembre 1942, alle 7.30 del mattino, quando ormai la prevista occupazione di Malta era stata definitivamente accantonata, Carmelo Borg Pisani saliva sul patibolo ed affrontava con grande coraggio la morte e ciò a detta di tutti coloro che erano presenti all’esecuzione: l’estremo sacrificio della vita per una causa che, sfortunatamente, non vedeva avverarsi.

Nella cella della morte, uno dei suoi pochi commenti, relativi alla sua sorte, fu: “Non mi dispiace di morire, ma sono amareggiato per la mancata invasione di Malta da parte dell’Italia”.

La notizia dell’esecuzione arrivò in Italia deformata e a lungo si pensò che Carmelo fosse stato fucilato, segno di come i nostri servizi d’informazione funzionavano bene a Malta. L’errore fu ripreso anche nella motivazione del conferimento della medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria, firmata da Vittorio Emanuele III in data 4 maggio 1943:

Irredento maltese e, come tale, esente da obblighi militari, chiedeva ripetutamente ed otteneva di essere arruolato, nonostante una grave imperfezione fisica. Come Camicia Nera partecipava alla campagna di Grecia, durante la quale contraeva un’infermità per cui avrebbe dovuto essere sottoposto ad un atto operatorio, al quale si sottraeva per non allontanarsi anche solo per pochi giorni dal campo di battaglia. Conseguita la nomina ad ufficiale della Milizia Artiglieria Marittima, chiedeva insistentemente di essere utilizzato in una rischiosissima impresa di guerra, alla quale si preparava in lunghi mesi d’allenamento e di studio, in perfetta serenità di spirito e in piena consapevolezza della gravità del pericolo. Catturato dal nemico, riaffermava, di fronte alla Corte Marziale britannica di Malta, la sua nazionalità italiana e cadeva sotto il piombo del plotone d’esecuzione al grido di <<Viva l’Italia>>. Fulgido esempio d’eroismo, di fede, d’abnegazione e di virtù militare, che si riallaccia alle più pure tradizioni dell’irredentismo”.

L’errore fu successivamente corretto, sostituendo la frase “cadeva sotto il piombo del plotone d’esecuzione” con quella: “condannato all’impiccagione saliva sul patibolo”.

Quella sopra riportata è la versione che, con alcune sfumature tra i diversi autori, è oggi prevalentemente accettata delle vicende riguardanti la missione di cui fu protagonista Carmelo Borg Pisani; vicende che però presentano non poche ombre e suscitano legittime domande:

  • 1 – considerato che a quel tempo Malta era sotto costante osservazione da parte della ricognizione aerea italiana e tedesca,  quale poteva o doveva essere l’utilità di tale missione, svolta a terra da un’unico agente che, affetto da forte miopia, aveva limitatissime possibilità di movimento oltre ad essere del tutto privo di appoggi in loco, giacché tutta la componente filo-italiana maltese era stata tempestivamente ed illegalmente arrestata dagli inglesi e deportata in Uganda?
  • 2 – come poteva una persona, che per le sue idee irredentiste era ben nota al controspionaggio locale, rientrare in piena guerra nell’isola e far passare inosservata la propria azione?
  • 3 – chi e con quale criterio scelse il punto di sbarco in un tratto di costa costituto da pareti rocciose a strapiombo alte alcune centinaia di metri e pressoché impossibili da scalare?
  • 4 – Borg Pisani fu veramente riconosciuto in ospedale dall’ufficiale medico, o tale versione è stata inventata, costruita e divulgata per coprire il fatto che gli inglesi erano già stati avvertiti del suo arrivo sull’isola dai traditori che si annidavano nello Stato Maggiore della Marina ed in particolare dal più infame di tutti, l’ammiraglio Francesco Maugeri, responsabile della morte di migliaia di marinai italiani e non solo, il quale, come capo del SIS Marina, non poteva non essere al corrente della missione?

Ovviamente sono domande che non avranno mai risposta, ma nulla tolgono alla luminosa figura dell’Eroe.

Su Carmelo Borg Pisani sono stati scritti numerosissimi articoli, hanno circolato molti video, sono stati pubblicati diversi libri (tra cui segnalo in particolare “Carmelo Borg Pisani – Patriota italiano e maltese” di Henry Frendo e Paolo Gulminelli, edito da Saratosa) e sono stati girati due film in dialetto maltese, ovviamente ignorati dalla grande distribuzione.

Ogni autore di tali opere, però, è stato spesso più o meno costretto ad attribuire a Carmelo pensieri e parole che probabilmente lui non ha mai formulato, ma che gettano su di lui luci con sfumature diverse.

A livello pubblico, invece, i vili e servili governi “democratici” del dopoguerra – mai abbastanza maledetti – hanno voluto dimenticare e far dimenticare l’Eroe, ignorando con pretesti puerili i numerosi periodici appelli a recuperare le sue spoglie e rendere loro i dovuti onori. In particolare hanno a lungo sostenuto che i resti mortali di Borg Pisani non erano rintracciabili perché si trovavano in una fossa anonima nel cortile del carcere di Corradino, accanto a quelli di delinquenti comuni: non è vero. Negli anni ’70 , le sue spoglie furono riesumate e portate nell’ossario del cimitero dell’Addolorata di Paola (frazione della capitale maltese), ove tuttora si trovano.                                                                        

Attualmente in memoria di Carmelo Borg Pisani esistono solo una strada di Roma e una di Torino e un cippo sistemato originariamente, nel novembre 1942, all’interno della Batteria Costiera della Milmart – corpo al quale apparteneva con il grado di sottotenente il Martire –  a Monte Marcello, proprio a picco di Punta Bianca (La Spezia), vandalizzato da ignoti scarafaggi “resistenziali” dopo il 25 luglio 1943 e solo nel 2017 recuperato, parzialmente restaurato e collocato nel giardino del Museo Tecnico Navale di La Spezia. Il cippo, ovvero ciò che ne rimane ora e privo del busto che in origine lo sormontava, ha le dimensioni di metri 1,23 x 0,49 x 0,37 e reca incisa la scritta, in parte abrasa: “Medaglia d’Oro Carmelo Borg Pisani, Milizia Art. Marittima Martire dell’Italianità di Malta – 1942”.

Un po’ poco per chi ha sacrificato la propria vita per la Patria.

Prima di essere condotto al patibolo Carmelo scrisse con un chiodo, incidendola sulla trave della porta della sua cella, la frase: “I servi e i vili non sono graditi al Signore“.

Non lo sono neppure a noi.

Giuliano Scarpellini

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HANNO PAURA ANCHE DEI NUMERI

La paura è uno stato emotivo che si determina di fronte ad un pericolo reale o presunto o immaginario, con un’intensità che varia da individuo ad individuo in presenza dello stesso pericolo.

In condizioni normali essa costituisce quindi una difesa per il soggetto che la percepisce, impedendogli di compiere atti che compromettano la sua incolumità.

Tuttavia la paura può assumere un’intensità patologica, prendendo in tal caso la forma di fobia o terrore ed allora, anziché rappresentare una difesa,  essa genera ansia e confusione ingiustificate e quindi atti inconsulti e sconsiderati, tali da aggravare il pericolo reale o rendere concreto quello immaginario.

Una conferma di ciò è l’ultima “trovata” del governo italiano – nella persona del ministro dell’interno Matteo Piantedosi – che, nel suo forte impegno a soddisfare la comunità ebraica che lo sponsorizza, ha democraticamente vietato che, a partire dalla prossima stagione del campionato di calcio, i giocatori indossino la maglia con il numero 88.

Perché?

La risposta a questa domanda si trova sul sito internet del governo alla voce ‘pregiudizi antisemiti’: “Ottantotto – 88 [proprio così, in lettere e numeri, come sugli assegni e sui vaglia postali]:

Abbreviazione per il saluto nazista Heil Hitler.

L’ottava lettera dell’alfabeto è H, due volte otto significa HH [e qui non ci sono dubbi o perplessità che tengano: è così e basta, chi se ne frega se per la smorfia napoletana significa caciocavallo], abbreviazione per il saluto nazista ‘Heil Hitler’ [anche su questo non sono ammesse contestazioni]. 88 si trova spesso sui volantini dei gruppi d’odio, sia nei saluti che nei commenti finali di lettere scritte dai neo-nazisti e negli indirizzi e-mail”.

Fonte? La solita alla quale il governo si abbevera: “Osservatorio Antisemitismo Fondazione CDEC”.

Il ministro Piantedosi, sorvolando acrobaticamente sugli innumerevoli problemi ben più seri ed urgenti dei quali dovrebbe occuparsi e ai quali non ha finora trovato soluzione, si è detto “orgoglioso” di avere adottato tale provvedimento, che peraltro, qualora  fosse esteso anche al di fuori dagli stadi, creerebbe sicuramente ad una infinità di persone grosse difficoltà non facilmente sormontabili: gli individui della classe ’88 potrebbero essere cancellati dall’anagrafe, i residenti al civico 88 di qualsiasi strada potrebbero vedersi abbattere la casa, non si potrebbe più telefonare alle varie città della Puglia o a Stati sparsi nel mondo i cui prefissi telefonici comprendono il famigerato 88, i numeri da 1 a 100 diventerebbero 99 e così via.

C’è poi un altro enorme problema che verrebbe creato dall’estensione del criterio interpretativo adottato per l’88 e che probabilmente il ministro non ha preso in considerazione: solo per fare qualche esempio, il numero 22 potrebbe significare “Biden Babbeo”, il numero 26, quale doppio di 13, potrebbe essere letto come “Mattarella Mummia”, il numero 113 potrebbe essere interpretato come l’acronimo di “Andate A Cagare”, il numero 66 potrebbe voler dire “Fatevi Fottere”, eccetera, eccetera.

Si arriverà quindi alla totale soppressione dei numeri? Non si può affatto escludere, vista la loro comprovata pericolosità. Si potrà salvare soltanto lo zero, che d’altronde corrisponde esattamente al valore di questa gente, costantemente terrorizzata dalla possibilità che l’enorme montagna di menzogne, sulla quale ha costruito il proprio potere, crolli e la travolga.

Giuliano Scarpellini

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COMMEMORAZIONE

Domenica 11 giugno si  è tenuta a Paderno di Mercato Saraceno (FC) l’annuale commemorazione dei Caduti della Repubblica Sociale Italiana promossa dalla Fondazione Francesco Parrini ETS, già Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi della Repubblica Sociale Italiana.

La storia della Fondazione è narrata nell’articolo del Dott. Pietro Cappellari – tra l’altro direttore del periodico “L’Ultima Crociata” – pubblicato sul sito www.ultimacrociata.it  e sotto riportato:

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Nasce la Fondazione “Francesco Parrini”

Storico traguardo raggiunto dall’Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi della RSI

Fin dalla sua costituzione, l’Associazione Nazionale fra le Famiglie dei Caduti e dei Dispersi della Repubblica Sociale Italiana ha avuto come obiettivo l’acquisizione della personalità giuridica, l’essere riconosciuta come “ente morale”, come allora si diceva. Ovviamente, il regime ciellenista, nato all’indomani della sconfitta dell’Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale, impedì sempre la realizzazione di questo obiettivo, lasciando l’Associazione “sopravvivere” ai margini della società civile. Ancora nella Primavera del 1994 – dopo l’ingenua illusione che la destra di Governo si sarebbe ricordata delle storiche battaglie dell’ANFCDRSI, nello stesso tempo in cui tradiva e rinnegava quel passato – l’obiettivo di essere riconosciuta come ente morale era all’ordine del giorno. Ma la cosiddetta Seconda Repubblica – che, in realtà, è sempre la Prima, solo con nomi e colori diversi – rimase saldamente un sistema ciellenista, completato adesso a destra, quella destra che, liberatasi dal “fardello” del fascismo, accettava compiutamente l’antifascismo come categoria morale, prima che politica.

L’ANFCDRSI ha comunque continuato per la sua strada, adempiendo al compito che i fondatori le avevano dato: onorare la memoria dei Caduti della Repubblica Sociale Italiana. Ma il tempo è passato, velocemente. Al diradarsi dei dirigenti locali, delle stesse famiglie dei Caduti, non è corrisposto – come era comprensibile – un ricambio generazionale. E così si è arrivati al 2018, con la morte dell’ultimo Segretario nazionale Arnaldo Bertolini, ai primi problemi concreti di sopravvivenza dell’Associazione. Il subentro alla segreteria della Prof.ssa Maria Teresa Merli e la direzione del giornale affidatami – senza dimenticare l’incessante impegno del Presidente Italo Pilenga – non hanno certamente risolto il problema di fondo: come continuare l’ardua battaglia. Infine, il colpo di grazia, nel 2020, con l’improvvisa morte del Presidente nazionale, che ha lasciato non solo un vuoto incolmabile per la sua grandezza morale, ma una serie di difficoltà dovute sia alla mancanza del “passaggio delle consegne” che al venir meno del Rappresentante legale, figura necessaria per il prosieguo delle attività basilari e legali dell’Associazione.

La Prof.ssa Merli, in questi due anni, coadiuvata dal nuovo Presidente nazionale Dott.ssa Anna Mancini, ha fatto il possibile per aggiornare, dopo il decesso dei rappresentanti legali Arnaldo Bertolini e Italo Pilenga, i documenti legalmente necessari al fine di regolarizzare e restituire nuova vita all’ANFCDRSI.

Grazie alla consulenza di esperti nel settore, si è trovata l’unica soluzione che potesse garantire un futuro all’Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi della RSI, ossia la trasformazione in Fondazione, passo necessario per la gestione dell’importante patrimonio immobiliare in possesso: la chiesa e la canonica di Paderno, cui si devono aggiungere la Biblioteca di Storia Contemporanea “Goffredo Coppola” e la testata de “L’Ultima Crociata”.

L’Assemblea degli Associati del 28 Ottobre 2021, nel IC anniversario della Marcia su Roma, ha convenuto sulla necessità di intraprendere la nuova via, altresì concordando sia sulla scelta del nome “FRANCESCO PARRINI” (il quale, ancor prima di essere fondatore dell’Associazione e del suo organo “L’ultima Crociata”, fu padre di Gino, assassinato all’età di 16 anni, il mattino del 2 maggio 1945, “motivo del delitto: portava l’uniforme dei soldati della patria”) sia sulla nuova sede legale, che corrisponderà all’indirizzo della canonica della nostra chiesa.

Si è dato così il via alla complessa ed onerosa operazione di trasformazione, come comunicato ai collaboratori dell’ANFCDRSI nella riunione Zoom del 22 Dicembre 2021.

Il percorso ha trovato conclusione il 19 Febbraio 2022, quando, presso la sede dell’ACLI di Bologna, in Via delle Lame n. 116, davanti al Notaio Elisa Gentilucci, si è costituita ufficialmente la Fondazione “Francesco Parrini” (Ente Terzo Settore).

La “Fondazione Parrini” rappresenta la nuova fisionomia con cui opererà l’Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi della RSI, la cui sigla – sia chiaro – continuerà ad essere utilizzata in tutte le attività sul territorio. I vecchi Delegati che sentiranno il dovere di rappresentare ancora l’ANFCDRSI – nonostante il decadimento del precedente statuto – continueranno la loro opera sul territorio di competenza, con il supporto della Fondazione.

La “Fondazione Parrini” sarà gestita da un Consiglio direttivo che rispecchia in pieno la vecchia Direzione nazionale dell’Associazione: Presidente Dott.ssa Anna Mancini e Vicepresidente Prof.ssa Maria Teresa Merli, cui si aggiunge, in qualità di Consigliere, il Dott. Pietro Cappellari, già Direttore editoriale de “L’Ultima Crociata” e Direttore della Biblioteca di Storia Contemporanea “Coppola” di Paderno. Revisore legale sarà il Dott. Simone Zucca, che curerà le incombenze legali e, soprattutto, la redazione dei bilanci pubblici.

Oltre l’indiscussa continuità riaffermata con la nomina di questo Consiglio direttivo, il nome scelto per la Fondazione – Francesco Parrini – richiama direttamente il fondatore dell’ANFCDRSI e del giornale “L’Ultima Crociata”, realizzando così una perfetta identificazione con il passato. Non a caso gli scopi della nuova Fondazione sono gli stessi della vecchia Associazione: la “Fondazione Parrini” “persegue esclusivamente finalità di solidarietà sociale, ha lo scopo di conservare, restaurare e valorizzare, anche attraverso l’apertura al pubblico, la Chiesa, di rilevante significato storico e architettonico, di proprietà dell’Ente; svolgere e promuovere attività culturale per far conoscere il pensiero e le vicende riguardanti i caduti della RSI mediante attività di ricerca come la raccolta di atti, documenti e cimeli; gestire, redigere e distribuire il giornale periodico denominato ‘L’Ultima Crociata’, di appartenenza all’ente;  ricordare e onorare la memoria dei soldati e dei civili scomparsi nei venti mesi della RSI e nel dopoguerra per via della loro appartenenza alla RSI o per la loro italianità”.

In questo anno, in cui ricorre il Centenario della Rivoluzione fascista, nasce così una nuova struttura, agile e snella, in grado di poter affrontare i numerosi problemi che il futuro ci riserva, raggiungendo, una volta ottenuta l’iscrizione all’apposito Registro Unico Nazionale Terzo Settore (RUNTS), uno storico obiettivo per l’Associazione: l’acquisizione della personalità giuridica.

L’atto di nascita a Bologna, in questo Centenario, richiama direttamente la storia di una città che vide nell’Autunno 1920 la fine del Biennio Rosso e l’inizio della reazione fascista. Ancor oggi, una “edulcorata” lapide affissa all’interno di Palazzo d’Accursio ricorda la strage compiuta dalle Guardie Rosse il 21 Novembre di quell’anno, quando negli incidenti di piazza scatenati dagli squadristi per l’insediamento della Giunta socialista, i massimalisti armati scambiarono per fascisti i propri compagni, massacrandone dieci; senza dimenticare l’assassinio, in pieno Consiglio comunale, del Consigliere Giulio Giordani. Bologna, da quel giorno, non fu più la stessa.

Il 19 Febbraio, ricorrevano due centenari “minori”: l’assassinio, a Russi (Ravenna), dello squadrista Luigi Bandini; e l’omicidio, a La Spezia, del fascista Francesco Podestà. Concluso l’atto formale della nascita della Fondazione, il Consiglio direttivo della “Fondazione Parrini” si è quindi recato presso il Cimitero della Certosa di Bologna, dove ha reso omaggio ai Martiri della Rivoluzione fascista.

Analogo omaggio è stato fatto sulla tomba di Giosuè Carducci, dimenticato Poeta della Patria, Vate della Terza Italia.

Prima di concludere l’intensa e storica giornata, il Consiglio direttivo si è recato alla stazione di Bologna, al cospetto della “edulcorata” lapide che ricorda il triste episodio del Treno della Vergogna del 18 Febbraio 1947, quando i comunisti, i socialisti e i sindacalisti della città “insorsero” contro il transito del convoglio che trasportava i profughi che fuggivano dall’Istria occupata dai banditi con la stella rossa, negando loro la dignità di essere umani ed arrivando a gettare sulle rotaie il latte preparato per i bambini. Questi sono i veri crimini commessi dagli Italiani sui quali una certa sinistra – che ancora sposa giustificazionismi, inventa aggressioni e persecuzioni, per celare l’olocausto giuliano-dalmata – dovrebbe riflettere e fare silenzio.

È con questi primi atti e con questo spirito, nell’anno del Centenario della Rivoluzione, che la Fondazione “Francesco Parrini” inaugura la sua attività.

Pietro Cappellari

*****

La cerimonia, presenti i labari e i medaglieri delle Associazioni d’Arma e dei Combattenti Repubblicani, è consistita nella messa in memoria dei Caduti officiata – secondo il rito tradizionale – da Don Ugo Carandino nella Chiesa eretta nel 1931 per volontà del Duce in onore del fratello Arnaldo e acquistata nel 1995 e poi restaurata dall’ ANFCDRSI grazie a donazioni e contributi sui quali soltanto la Fondazione/Associazione si regge, e nella visita al piccolo attiguo cimitero, ove riposano le spoglie mortali di Arnaldo Mussolini e dei suoi familiari.

Giuliano Scarpellini

La chiesa di Paderno
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Il Risorgimento Indiano di Narendra Modi come modello nazionalfascista

di M. Solari

“L’India di oggi è l’India Nazionalista come la voleva il nostro venerato condottiero Chandra Bose”

23 gennaio 2023

Narendra Modi

23 Gennaio 2019 Narendra Modi rende omaggio al leader nazionalfascista antimperialista Chandra Bose nell’anniversario della nascita

Se Renzo De Felice riteneva che il termine fascismo andasse abolito dal vocabolario dato che il suo continuo uso avrebbe finito per ingenerare solamente confusione, E. Nolte riteneva viceversa che fosse più corretto usare il termine “nazionalfascismo” che non corrisponde al “radicalfascismo” nella sua forma nazista pangermanista che è quasi esclusivamente per il Nostro una reazione al Terrore Marxista-Stalinista nella logica furiosa della guerra civile europea; ciò per il fatto che l’esperienza storica mussoliniana culminata nella Marcia su Roma avrebbe per lo storico tedesco già preso avvio con le frazioni più nazionaliste del Risorgimento italiano– quelle mazziniane in particolare ma anche quelle giobertiane – e sarebbe quindi continuata con il “nazionalismo vario” dei primi del secolo celebrato da Gioacchino Volpe.

Sviluppando questa visuale Nolte, che vedeva nel fascismo una autentica Resistenza di sostanza neo-risorgimentale, che definisce ne “I Tre volti del fascismo” addirittura una forma di resistenza disperata e romantica contro la trascendenza pratica e perciò una lotta contro la trascendenza teorica rappresentata dall’universalismo astratto del Comunismo più o meno Liberal e dalla Sinistra Radicale odierna, previde alla metà degli anni ’90 una rinascita del nazionalismo antiglobalista o nazionalfascismo e negli Stati Uniti e nell’India.

Lo storico tedesco vede nella Seconda Guerra Mondiale il trionfo della trascendenza e del globalismo messianico ebraico nella sua forma bolscevica o liberal che finalmente annienta il nazionalfascismo. Ma per il Nolte questo annientamento non è definitivo, quella della Seconda Guerra Mondiale sarebbe perciò una falsa vittoria. Lo storico scrive al riguardo: “Lo spirito (Geist) vinse nel 1945, ma creò la bomba atomica. L’anima (Seele), cioè le forme tradizionali della Kultur, subì una gravosa sconfitta, ma scomparve così poco dal mondo quanto la ragione è capace di eliminare nell’uomo angosce e desideri. Il 1945 non trasformò il pensiero storico in un permanente inno trionfale, ma dovette al contrario offrirgli nuovi scandali, non appena al posto della guerra civile europea esplose un conflitto tra i vincitori, che in quanto lotta ideologica fra due superpotenze divenne al tempo stesso una guerra civile mondiale».

Riprendendo sempre più, dalla seconda metà degli anni Sessanta, le tesi espresse da Carl Schmitt in conferenze allo Stato Maggiore Spagnolo del Caudillo Francisco Franco, sintetizzate nel prezioso volumetto “La teoria del partigiano” pubblicato in Italia da Adelphi, Nolte arrivava già dagli anni ’70 alla conclusione storiografica-filosofica intuitiva che tale messianismo totalitario globalista, che Yalta non riusciva a suo avviso a ben concretizzare, non sapeva incarnare l’altezza dei tempi storici; di conseguenza Nolte descrisse la nuova resistenza su base nazione del cosiddetto nazionalfascismo neo-romantico metamorfosato e rimodellato dalla crisi della globalizzazione comunista o liberal.

Di conseguenza egli rilesse, del resto coerentemente con la tesi fondamentale de “I tre volti del fascismo” che vide nel ‘900 l’epoca del fascismo (come già il bolscevico Zinov’ev aveva dichiarato), tutta la storia successiva e futura all’insegna della rinascita degli spiriti nazionali che avrebbero resistito all’omologazione totalitaria e forzata; lo stesso “terzo radicalismo” Internazionalista, quello dell’11 Settembre islamista di Osama Bin Laden, mostrava per Nolte gli stessi limiti della classica visione astratta trascendente nella sua versione leninista bolscevica o liberal che fosse, non possedendo quel radicamento strategico che avrebbero avute le culture nazionaliste e le identità nazionali.

In questa prospettiva, se Mussolini, secondo Nolte, fu l’archetipo e l’uomo più rappresentativo del Novecento in quanto capace di radicalizzare il nazionalismo rivoluzionario come Antimarxismo Integrale e AntiGlobalismo sovversivo (Cfr. Nolte, Il Giovane Mussolini), volendo oggi attualizzare la visione noltiana senza dubbio l’India del Bharatiya Janata Party (Partito del Popolo Indiano) è allo stato odierno la nazione che fornisce l’esempio di archetipo della resistenza nazionalista contro la trascendenza teorica e pratica della Sinistra Radicale neo-leninista e globalista.

Indubbiamente, questo è un fatto che chi ha studiato le sue opere ben sa, Nolte seppe prevedere già dai primissimi anni Novanta la nascita di qualche cosa assai simile al MAGA trumpiano negli Usa, ma il caso indiano ci sembra ancor più esemplificativo, almeno in tale specifico contesto. Non a caso, V. D. Savarkar nel saggio che delinea i fondamentali principi dell’odierno nazionalismo hindutva – “L’essenza dell’Hindutva” – rielabora nel contesto nazionale indù i classici valori del Romanticismo italiano mazziniano.

Se è d’altra parte vero che non solamente Damodar Savarkar, come già detto l’ideologo del nazionalismo indù, ma anche Gandhi si consideravano entrambi eredi spirituali di Giuseppe Mazzini, è però un fatto che i decenni successivi all’Indipendenza indiana dal colonialismo britannico, con il Congresso di J. Nehru sempre in posizione egemone, dunque con la visione strategica gandhiana quale linea direttiva, vedevano New Dehli di fatto al servizio dell’Imperialismo Sovietico di Mosca, non in posizione di concreta autonomia strategica.

Lo sbandierato non allineamento fu solo teorico e formale, nei momenti decisivi della guerra fredda l’India socialista di Nehru si trovava in posizione subalterna rispetto a Mosca. Di conseguenza il tanto sbandierato patriottismo gandhiano si traduceva in sudditanza all’Imperialismo marxista e in un vero e proprio Sub-Imperialismo.

Ben differente il caso dell’odierna India nazionalista di Modi – considerato tra l’altro dal Capo Gabinetto del Governo Draghi, A. Funiciello, lo statista più lucido e strategico del mondo – che correttamente è stata definita da Pankaj Mishra più “italiana” e più “romanticista” di quanto lo fosse o lo sia stata con la Sonia Ganhdi, a causa del nazionalfascismo di fondo che la caratterizzerebbe.

Noi oggi sappiamo, in termini certi e definitivi, che Narendra Modi vuole realizzare storicamente il grande sogno di Chandra Bose, “l’eroe” del nazionalismo antimperialista e filofascista morto a Taiwan nell’agosto 1945 a causa di un attentato quasi certamente compiuto dagli imperialisti sovietici. Nell’anniversario della nascita di Bose, il 23 Gennaio 2023, Modi ha dichiarato che l’India odierna tende a incarnare il modello archetipico del condottiero antimperialista dello scorso secolo. Il 23 gennaio 2023 è stato il giorno definitivo della comunione tra l’India moderna e la visione del Netaji (Venerato Leader), il filofascista e antimperialista Chandra Bose.

Netaji Subhas Chandra Bose sarà ricordato per la sua feroce resistenza al dominio coloniale occidentale, ha dichiarato il primo ministro Narendra Modi mentre rendeva omaggio al Netaji nel suo anniversario di nascita, che è contrassegnato nella storia indiana come Parakram Diwas.

“Profondamente influenzati dai suoi pensieri, stiamo lavorando giorno dopo giorno per realizzare la sua visione per l’India”, ha aggiunto il primo ministro Modi.

Il primo ministro ha anche inaugurato un modello di un memoriale proposto dedicato a Bose nelle isole Andamane e Nicobare, e ha chiamato 21 isole dopo i premiati Param Vir Chakra. Il memoriale sarà allestito su Ross Island, ribattezzata Netaji Subhash Chandra Bose Dweep nel 2018. Parlando per l’occasione, Modi ha dichiarato: “Il memoriale di Netaji nelle isole Andamane e Nicobare infonderà i Sentimenti del nazionalismo di Netaji Chandra Bose nel cuore delle persone. Ci sono state richieste per creare file segreti pubblici su Netaji, e lo abbiamo fatto. L’intero Paese, da Dehli e Bengala alle isole Andamane e Nicobare, rende omaggio a Netaji, preservando il patrimonio a lui associato”.

Tali espliciti richiami, con tutta loro significativa pedagogia identitaria, ideocratica e antiuniversalista, rendono chiaramente l’India odierna un modello noltiano di nazionalfascismo risorgimentalista antimperialista e antiglobalista.

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